Progetto di Rilevante Interesse Nazionale - PRIN 2017

POLITICHE REGIONALI, ISTITUZIONI E COESIONE
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA

 

INTRODUZIONE

 

Premessa

Dopo quasi 70 anni di politica regionale, il divario economico tra il Nord e il Sud d'Italia, secondo i principali indicatori macroeconomici e sociali, non è diminuito. Anche se tra il 1950 e il 1975 si sono registrati miglioramenti significativi (l'età d'oro della politica regionale nazionale), dopo l'avvento della Politica europea di coesione all'inizio degli anni '90, il PIL, i consumi e gli investimenti pro capite del Sud, rispetto al Centro-Nord, sono regrediti ai livelli del secondo dopoguerra. La crisi finanziaria del 2008 e le conseguenti misure di austerità hanno ulteriormente peggiorato il quadro. All’interno del Mezzogiorno, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia hanno registrato i tassi di crescita del PIL più bassi tra le regioni NUTS2 dell’UE, nonostante cinque tornate della Politica europea di coesione.

Perché questo stato di cose? Cosa distingue queste regioni italiane dalle altre regioni in ritardo di sviluppo d’Europa, che sono state in grado di crescere e/o sfruttare i fondi della Politica europea di coesione? Si riscontrano rilevanti differenze anche tra le stesse regioni del Mezzogiorno: perché la Puglia ha ottenuto risultati migliori – in termini aggregati – della Calabria o della Sicilia? E all'interno di ciascuna di queste regioni, perché alcuni luoghi prosperano e altri no? Ancora più importante, perché la politica di coesione non ha raggiunto i risultati attesi e come possono essere migliorate le politiche di sviluppo regionale – a livello europeo, nazionale e regionale – per includere luoghi che sembrano ‘intrappolati’ in processi di declino cumulativo e tagliati fuori dalle attuali opportunità della politica regionale?

 

Obiettivi del progetto di ricerca

Il Progetto ha due obiettivi principali: 1) rispondere alle domande poste sopra e identificare i determinanti del successo o dei fallimenti delle diverse strategie di politica regionale, nelle diverse fasi e nei diversi contesti territoriali, con particolare attenzione alla Politica di coesione e al Mezzogiorno d’Italia. 2) Proporre raccomandazioni per una politica regionale più efficace, al livello UE, nazionale e locale.

Per raggiungere il primo obiettivo, il progetto mette innanzitutto a confronto le politiche regionali e le trasformazioni economiche in alcuni Stati membri dell'Unione Europea storicamente caratterizzati da disparità regionali o bassi livelli di sviluppo. Parallelamente, mette a confronto le strategie, gli strumenti e gli impatti delle politiche regionali attuate in diverse regioni e luoghi del Mezzogiorno, nei due principali ‘regimi’ di policy: la politica ‘nazionale’ del periodo keynesiano (1950-80) e la Politica europea di coesione degli ultimi 30 anni. Lo scopo di queste analisi comparative (sia spazialmente, che temporalmente) è identificare i principali fattori – relativamente al contesto macroeconomico, all’architettura delle politiche, e alle caratteristiche endogene dei territori – che hanno condizionato le trasformazioni economiche, sociali e territoriali dei luoghi e possono contribuire a spiegare il loro relativo successo o fallimento. I contesti macroeconomici dei due periodi sono, infatti, molto diversi, così come le strategie e gli strumenti di politica regionale. Ma particolarmente diversi sono anche i caratteri specifici dei luoghi, sia strutturali (sistemi produttivi e strutture di classe, mercati del lavoro, morfologie e infrastrutture) sia istituzionali (élite politiche, burocrazie amministrative, coalizioni imprenditoriali, organizzazioni della società civile, cultura, valori), e il modo in cui questi si relazionano con i più ampi contesti nazionali e internazionali. Tutti questi fattori contribuiscono a spiegare le differenze di performance tra regioni e luoghi e possono far luce su ‘cosa può essere cambiato’.

Tra i fattori istituzionali, il progetto presta particolare attenzione alle istituzioni di governo, che sono in misura crescente riconosciute come fattori chiave per spiegare le traiettorie di sviluppo. La qualità e la capacità dei governi – alle diverse scale, ma soprattutto quella locale – di guidare e utilizzare le politiche di sviluppo sono le principali variabili esplicative del successo e del fallimento dei luoghi. Ciò è particolarmente vero nell'attuale regime della Politica di coesione, che privilegia la governance ‘locale’ delle strategie di sviluppo e si basa su meccanismi competitivi di finanziamento.

Il secondo obiettivo del progetto è trarre lezioni dalle analisi comparative effettuate e proporre una serie articolata di raccomandazioni per una revisione dell'attuale quadro di politica regionale e l'elaborazione di misure più efficaci di intervento per le regioni e i luoghi che si stanno dimostrando incapaci di cambiare, che appaiono ‘bloccati’ in processi cumulativi di declino, e/o sono ‘tagliati fuori’ dalle attuali opportunità di finanziamento.

 

IL DIBATTITO: STATO DELL’ARTE

 

Il persistere delle disparità regionali in Europa e in Italia

Gli ultimi tre rapporti sulla coesione (CE 2010; 2014; 2017a) attestano tutti la persistenza – e in alcuni casi anche l'aumento – delle disparità regionali in Europa negli ultimi venticinque anni, sebbene evidenzino anche rilevanti cambiamenti nella geografia della crescita. Mentre le disparità ‘tra’ gli stati – in particolare tra i ‘vecchi’ stati membri dell'UE-15 e i ‘nuovi’ paesi membri dell'UE-12 – sono diminuite, è stato osservato un peggioramento del coefficiente di variazione ‘all'interno degli stati’ (Monfort 2009). La ripresa delle disparità regionali, dopo la convergenza degli anni '60 e '70, è particolarmente evidente nel Regno Unito e in Italia (Crafts 2005; MacCann 2016; Iuzzolino et al. 2013; Martinelli 2017), mentre la crisi finanziaria del 2008 ha interrotto i processi di convergenza che si erano avviati negli anni '90 in alcuni stati – la Spagna, Irlanda – e ha ulteriormente peggiorato la posizione dell'Italia. Inoltre, si è verificata una polarizzazione della crescita in poche regioni (metropolitane), a scapito di quelle più periferiche. Studi recenti sottolineano anche le crescenti difficoltà incontrate dalle ‘regioni intermedie’, cioè quelle aree intrappolate tra i pochi motori di crescita competitiva della ‘vecchia’ Europa e le regioni dell'Europa centrale e orientale, meno sviluppate ma in forte crescita (Iammarino et al. 2017; EC 2017b).

In questo contesto generale, spicca il caso dell'Italia, con il persistere della sua ‘questione meridionale’. Mentre altri paesi caratterizzati da importanti disparità regionali come Germania e Spagna hanno sperimentato una certa convergenza fino alla crisi (Prota e Viesti 2015), dalla fine della politica regionale nazionale nel 1992 il divario regionale in Italia è rimasto impermeabile al cambiamento (Giannola 2010; Martinelli 2013; Leonardi 2014; Trigilia e Viesti 2016).

Per spiegare questa anomalia, tre ordini di fattori sono qui chiamati in causa: a) i cambiamenti del contesto macroeconomico; b) i cambiamenti nell'architettura delle politiche; c) alcuni fattori endogeni.

 

Il contesto macroeconomico

A partire dalla fine degli anni '80 importanti cambiamenti hanno minato l’ordine fordista del secondo dopoguerra e modificato la divisione internazionale del lavoro. Tra questi si possono richiamare brevemente: la globalizzazione dei mercati e l'emergere di nuovi concorrenti tra paesi di nuova industrializzazione; la deindustrializzazione delle economie occidentali, la riorganizzazione dei sistemi di produzione, l’espansione degli investimenti esteri diretti e la creazione delle catene globali del valore (Iammarino e Mccann 2013; Giovannetti et al. 2015); lo sviluppo di nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e l’intensificazione dell'innovazione tecnologica; la caduta dell'Unione Sovietica e l'accelerazione dell'integrazione europea. Questi cambiamenti hanno indebolito significativamente la posizione competitiva di molte nazioni e regioni europee sulla scena globale e hanno alterato la geografia europea della crescita. Il rallentamento generalizzato dei tassi di crescita ha anche ridotto le capacità di spesa dei governi.

 

Il quadro politico

Due “regimi” politici sono generalmente contrapposti in letteratura, ciascuno caratterizzato da sistemi distinti di (i) ideologie e principi sul ruolo dello stato e del mercato, (ii) obiettivi e strumenti di politica economica, (iii) attori e forme di governo: il regime Keynesiano-Fordista (1945-1980) e il regime Post-fordista o Neo-liberale (dall'inizio degli anni '90 ad oggi) (Brenner 2003).

Durante il primo periodo, lo stato è intervenuto in modo significativo nell'economia e nella società, attraverso investimenti infrastrutturali diretti e proprietà di settori strategici, una forte regolamentazione ma anche il sostegno delle aziende private, importanti politiche sociali, il tutto orientato a garantire una crescita efficiente ed equilibrata. L'intervento statale aveva obiettivi sia ridistributivi che di sviluppo, nel contesto di una strategia di rafforzamento dello stato-nazione. È in questo periodo che nascono le agenzie di sviluppo regionale mirate a ridurre i divari territoriali: la Cassa per il Mezzogiorno in Italia, la DATAR in Francia, le RDA nel Regno Unito. Le politiche regionali del tempo condividono alcune caratteristiche fondamentali: le disparità regionali interne erano considerate un problema nazionale e le politiche regionali erano integrate nelle strategie nazionali di sviluppo (‘Spatial Keynesianism’, si vedano Martin e Sunley 1997); sono state mobilitate ingenti risorse pubbliche nazionali; strategie e interventi sono stati progettati e attuati centralmente; si sono registrate riduzioni significative dei divari sociali ed economici.

Il secondo periodo è stato caratterizzato da un'accelerazione dell'integrazione europea e dal riemergere dell'economia dal lato dell'offerta (con i propri corollari di concorrenza e liberalizzazione). In tutta Europa è stato attuato uno smantellamento sistematico dei sistemi nazionali consolidati di regolamentazione economica e responsabilità pubblica. I governi nazionali hanno perso la sovranità negli ambiti politici che erano stati fondamentali per correggere le disparità regionali – politica industriale, politica regionale, servizi pubblici di interesse generale – ora considerati concorrenza sleale (Colomb e Santhina 2014). All'inizio del XXI secolo, si erano verificati cambiamenti radicali nel ruolo dello Stato: un restringimento generalizzato del coinvolgimento regolamentare, redistributivo e diretto dei governi nazionali nell'economia; un “ridimensionamento” verticale dell'autorità, sia verso l'alto (a favore dell'UE) che verso il basso (verso i governi regionali e locali); un ampliamento “orizzontale” della governance, coinvolgendo partner privati. Le politiche regionali sono state ampliate nel quadro della “politica di coesione” a livello dell'UE, inteso ad aiutare i territori più deboli all'interno dell'Unione, e riarticolate in un sistema multilivello (Stephenson 2013) in cui l'UE ha fornito regolamentazione, finanziamenti e priorità strategiche, il livello nazionale ha garantito il cofinanziamento e la contestualizzazione strategica, mentre ai livelli regionale e locale resta il compito di formulare e attuare le azioni politiche.

 

I fattori endogeni

I fattori endogeni e i potenziali vantaggi competitivi che ne derivano sono sempre stati un elemento centrale delle teorie dello sviluppo regionale. Con la ‘svolta istituzionale’ (si veda Martin 2002 per una rassegna), il pacchetto dei vantaggi strutturali tradizionali è stato arricchito con le risorse socio-istituzionali (élite politiche e istituzioni governative; organizzazioni imprenditoriali, del lavoro e della società civile; cultura e valori; conoscenze e routine; relazioni e fiducia). È ormai riconosciuta l’importanza dell'interazione tra le strutture e le istituzioni locali – in particolare le istituzioni governative – e di come queste si articolano con le più ampie reti nazionali e internazionali nell’influenzare la capacità dei luoghi di agire e cambiare (Martinelli e Novy 2013; De Vivo 2017). D'altra parte, il ‘capitale istituzionale’ è molto differenziato tra i luoghi (Rodríguez-Pose 2013; EC 2017b; Iammarino et al. 2017) e le capacità locali rimangono fortemente condizionate dalle tendenze strutturali più ampie (Lovering 1999; MacLeod 2001).

 

I tre pilastri della Politica di coesione dell'UE

Sin dal suo principio, la politica europea di coesione è stata influenzata in modo significativo da due coeve evoluzioni del dibattito scientifico: (a) la discussione e le pressioni relative al decentramento amministrativo; (b) il consolidamento del ‘paradigma dello sviluppo locale’. Entrambi sono diventati pilastri della politica di coesione, che ripone una fiducia quasi cieca nei vantaggi della governance locale dello sviluppo (Martinelli 2017).

Il primo pilastro è l'ambiguo principio di ‘sussidiarietà’, introdotto nel 1985, assieme alla retorica comunitaria di ‘un'Europa delle regioni’. Promuove l'idea che i sistemi di governo decentralizzati siano intrinsecamente più efficienti e più democratici di quelli centralizzati. Recentemente, tuttavia, numerosi studiosi hanno contestato queste ipotesi (Ezcurra e Rodríguez-Pose, 2013), sostenendo che il decentramento amministrativo non è un processo omogeneo, né un sistema uniforme. L'efficienza e la democrazia dipendono da quali funzioni e quali ambiti di politica pubblica sono decentrati e dalla ‘qualità’ dei governi subnazionali (Charron et al, 2014).

Il secondo pilastro è la fiducia nella governance locale delle strategie di sviluppo. I dibattiti sul 'nuovo regionalismo' e sui 'sistemi di produzione flessibili' degli anni '80 e '90 (di cui i 'distretti industriali' italiani erano antesignani) avevano evidenziato il ruolo dei fattori 'endogeni' – specie le risorse istituzionali e le altre risorse immateriali ‘radicate’ nel territorio – nello spiegare il successo di alcuni sistemi di produzione locale (si vedano le rassegne di Garofoli 2003 e Moulaert e Sekia 2003), contribuendo alla cosiddetta ‘svolta istituzionale e territoriale’ negli studi regionali (Martin 2002). Ma il 'paradigma dello sviluppo locale' ha presto assunto una dimensione normativa, trasformandosi in un 'paradigma di policy’ che è stato esplicitamente adottato dall'UE nel round di politica di coesione 2000-2006 (Viesti e Prota 2007): il locale è stato ritenuto il miglior livello per rivelare bisogni, formulare strategie e ‘sbloccare’ il potenziale endogeno dei luoghi. Questo approccio è stato riconfermato nel round di programmazione 2014-2020, con la strategia dello sviluppo ‘place-based’ (Barca 2009).

Un terzo pilastro della politica di coesione è l'architettura ‘competitiva’ del sistema di finanziamento, che affida la formulazione e attuazione di strategie e azioni principalmente al livello locale, attraverso il meccanismo dei bandi di gara. In questo sistema gli attori pubblici e privati ​​locali devono formulare e presentare proposte per ottenere le risorse.

 

Il caso del Mezzogiorno

L'Italia è un caso emblematico, ma anche molto speciale, che illustra molto bene quanto le condizioni macroeconomiche, l’architettura delle politiche, e i fattori endogeni influenzino l'attuazione delle politiche e le disparità regionali.

Dal 1950 al 1980 la politica regionale in Italia è stata formulata, finanziata e attuata da un'agenzia nazionale (la Cassa per il Mezzogiorno), attraverso massicci investimenti pubblici in infrastrutture e il sostegno all'industrializzazione nel Mezzogiorno, in un contesto di crescita (il 'miracolo economico' italiano) e all'interno di una strategia nazionale di sviluppo. La quantità di risorse pubbliche convogliate al Sud è stata imponente e l'impatto socioeconomico straordinario, anche se non privo di contraddizioni. Secondo la maggior parte degli indicatori macroeconomici e sociali, il divario tra il Sud e il resto del Paese in questi anni si è notevolmente ridotto, (Giannola 2010; Martinelli 2013).

Nel 1984 la Cassa è stata abolita e con la Legge 64 del 1986 è stato introdotto un sistema più decentralizzato, con un ammontare di risorse notevolmente ridimensionato. È stato il ‘rantolo finale’ della politica regionale nazionale, che è stata definitivamente soppressa nel 1992, apparentemente per conformarsi alle direttive UE, ma essenzialmente a causa delle crescenti difficoltà finanziarie del governo centrale e dell'ostilità politica delle regioni del Nord-Est (Martinelli 2009). Quando l'interesse nazionale per la politica regionale si è in qualche modo riacceso nel 1998, è stato acquisito il paradigma del ‘governo locale dello sviluppo’ dell'UE, fondendolo funzionalmente con la “nuova programmazione” nazionale (Prota e Viesti 2012).

Ma, come è stato sistematicamente documentato dalla Svimez, a partire dall'avvento della Politica europea di coesione il divario tra il Sud e il resto del Paese è tornato ai livelli del secondo dopoguerra. Vi è anche un ampio consenso sul fatto che la Politica di coesione abbia fallito nel Sud Italia rispetto ad altre regioni in ritardo di sviluppo dell'UE (Manzella e Mendez 2009). Le ragioni di tali scarse prestazioni devono essere ricercate – come postulato in precedenza – nelle mutate condizioni macroeconomiche, nella nuova architettura della politica regionale, e nei fattori endogeni specifici di nazioni e regioni.

Per quanto riguarda le condizioni macroeconomiche, la crisi del Fordismo negli anni ‘80 ha colpito in particolar modo il Sud di nuova industrializzazione. Nello scenario Post-fordista, i distretti industriali del Nord-Est sono diventati i nuovi motori della crescita e dell'export italiano, ma solo poche realtà produttive del Sud si sono integrate in questo nuovo modello industriale (Viesti 2000). La stagnazione economica dell'economia italiana e la perdurante crisi fiscale del governo nazionale dopo il 1992 (ulteriormente aggravata dalle misure di austerità introdotte dopo il 2008), contribuiscono certamente a spiegare la riduzione complessiva delle risorse pubbliche dedicate al Mezzogiorno. Ma la bassa priorità data dal governo nazionale alla questione meridionale ha anche una rilevante valenza politica (Polverari 2013). Ciò è testimoniato non solo dalla quantità sistematicamente inferiore degli investimenti pubblici ‘ordinari’ per abitante nel Sud rispetto al resto del Paese (Svimez 2010; 2014), ma anche dal sistematico dirottamento delle risorse nazionali dedicate (il FAS, poi FPS) verso altri usi (Petraglia e Scalera 2012). Le risorse dell'UE hanno quindi ‘sostituito’ gli investimenti pubblici nazionali ‘ordinari’, invece di essere ‘aggiuntive’ (Woster e Slander 2009; DPS 2009; EC 2010). La riduzione delle risorse nazionali al Sud è stata particolarmente dannosa per i governi locali meridionali dopo la crisi del 2008 e le relative misure di austerità, compromettendo, tra le altre cose, la loro capacità di cofinanziare le azioni della politica di coesione (Prota e Viesti 2015; Giannola et al. 2015; Leonardi 2014).

Per quanto riguarda l’architettura delle politiche, in assenza di un adeguato supporto nazionale ‘sussidiario’, le responsabilità di formulazione e attuazione attribuite agli attori regionali e locali, insieme al meccanismo competitivo per ottenere finanziamenti e alle macchinose procedure di monitoraggio e rendicontazione delle politiche, hanno penalizzato molti luoghi nel Sud, soprattutto dove la qualità sia dei governi locali che degli attori locali è debole (Provenzano 2015; Trigilia e Viesti 2016). Come sottolineato da Avdikos e Chardas (2016), le condizionalità e i meccanismi di sanzione/premialità recentemente introdotti, si stanno rivelando un ulteriore ostacolo all'accesso ai fondi della politica di coesione, proprio in quei luoghi che hanno più bisogno di risorse aggiuntive.

D'altra parte, nonostante il divario aggregato nelle capacità attuative della politica di coesione, anche nel Mezzogiorno si riscontrano esempi di governance virtuosa dello sviluppo. La qualità delle istituzioni e delle strutture regionali e locali – le élite politiche, i gruppi di interesse imprenditoriali, il personale amministrativo, ma anche le strutture produttive, l’ambiente costruito e le infrastrutturale – ereditate dal precedente regime politico (De Vivo 2009; Milio 2011; Nigrelli 2014; Nigrelli e Bonini 2017) sono quindi variabili chiave per spiegare le differenze.

 

METODOLOGIA E ARTICOLAZIONE DEL PROGETTO

 

L'approccio analitico del progetto di ricerca è multidisciplinare, comparativo e transdisciplinare. Studiare lo sviluppo nello spazio e nel tempo comporta l'integrazione di diverse dimensioni: economica, sociale, territoriale, storica. Gli studiosi coinvolti nella ricerca hanno background disciplinari differenti che garantiscono tale approccio multidisciplinare: urbanistica, pianificazione territoriale, politica regionale, geografia economica, economia politica, economia agraria, economia e sociologia industriale, sociologia dello sviluppo, storia della città e del territorio [LINK A PAGINA UDR]. È necessaria anche una prospettiva comparativa, sia nello spazio, che nel tempo. Dal punto di vista spaziale, le regioni meridionali sono confrontate con altri casi europei e tra di loro, così come sono messi a confronto i diversi casi studio locali, per meglio comprendere quanto le specificità di contesto abbiano modellato le differenze. Lo spazio è anche considerato in termini di relazioni inter-scalari, nella misura in cui le traiettorie locali sono condizionate dalle scale più ampie. Dal punto di vista temporale, gli approcci, l'attuazione e gli impatti delle politiche regionali vengono confrontati rispetto a due periodi: a) la fase della politica regionale ‘nazionale’ e b) gli anni della politica europea di coesione, esaminando in particolare il ruolo delle path-dependencies. In ultimo, ma non meno importante, nell’analisi dei casi studio locali è attuato un approccio transdisciplinare, con il coinvolgimento attivo degli attori locali, sia per il loro contributo alla conoscenza, sia per la condivisione dei risultati della ricerca.

La metodologia di ricerca è sia qualitativa che quantitativa. La disamina comparativa delle traiettorie e delle politiche di sviluppo regionale in Europa e nel Mezzogiorno è condotta a partire dalla letteratura esistente, da rapporti di ricerca e documenti di policy (UE; OCSE; archivi della Cassa per il Mezzogiorno; Svimez; Ministero Economia e Finanza; DPS; Agenzia per la Coesione Territoriale; Governi regionali ecc.) e integrata con un ampio lavoro sul campo (analisi di documentazione locale, sondaggi, interviste a esperti e testimoni privilegiati). Le tendenze di sviluppo e le trasformazioni socioeconomiche e territoriali sono inoltre documentate con il supporto di statistiche descrittive, analisi econometriche e mappature GIS, basate su banche dati pubbliche e private (Eurostat, Istat, Svimez, European Regional Dataset e FDIMarket).

Per raggiungere gli obiettivi prefigurati, il progetto si articola in sette Work package (WP), alcuni dei quali si sviluppano in parallelo. Ogni WP è coordinato da una delle Unità di ricerca (UdR) coinvolte ed è caratterizzato da specifici obiettivi, attività, e prodotti (Deliverable = Ds); si veda il cronoprogramma GANTT (LINK). Ogni UdR contribuisce ai diversi WP con le proprie specifiche competenze.

WP0. COORDINAMENTO E GESTIONE (Coordinamento: Università di Reggio Calabria)

WP1. LE POLITICHE REGIONALI IN EUROPA (Coordinamento: Università di Bari)

WP2. LA POLITICA REGIONALE NEL MEZZOGIORNO (Coordinamento: Università di Reggio Calabria)

WP3. LE TRAIETTORIE REGIONALI (Coordinamento: Università di Napoli)

WP4. I CASI STUDIO LOCALI (Coordinamento: Università di Catania)

WP5. LEZIONI E RACCOMANDAZIONI DI POLICY (Coordinamento: Università di Reggio Calabria)

WP6. DISSEMINAZIONE E VALORIZZAZIONE (Coordinamento: Università di Reggio Calabria)

 

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